Il duro dal cuore tenero

Un omaggio al brigante Tiburzi.
"Morto è l'intrepido forte leone, e il corpo esanime, giacente e spento,
pur dopo morto mette spavento...
Nel volto pallido, barbuto e fiero,
potevi scorgere il cavaliero,
potevi scorgere che quel brigante,
aveva nobile, civil sembiante"


Così cantavano tutti i maremmani che avevano conosciuto questo personaggio affascinante, la cui morte in un agguato unita alla tradizione popolare, lo hanno innalzato a mito: "Tiburzi, il brigate buono maremmano".
Sulle sue azioni si era costruita l'immagine del bandito sociale, del Robin Hood maremmanoche toglie ai ricchi per dare ai poveri: Domenico Tiburzi, detto "Domenichino".
Un brigante duro dal cuore tenero, nato a Cellere, nel viterbese, il 28 maggio 1836, sposato e padre di due figli, uccideva "perché fosse rispettato il comando di non uccidere", e da sé medesimo si era nominato protettore della giustizia, anche contro la legge.
Così come la "tassa del brigantaggio", che i briganti pretendevano dai nobili e dai ricchi possidenti terrieri che tenevano in pugno l'economia agricola della zona, tra cui i Corsini di Marsiliana, i Guglielmi di Montalto di Castro, i Collacchioni di Capalbio, e in cambio garantivano protezione, in una sorta di alleanza non ufficiale. Per coloro che si rifiutavano la punizione era l'incendio: la storica reazione antipadronale dei braccianti maremmani.
Sempre secondo la leggenda sembra che Tiburzi distribuisse il denaro "rubato ai ricchi" ai poveri, contadini e gli artigiani ed ai familiari dei briganti uccisi ingiustamente dalla legge ufficiale.
Si preoccupava di reperire il chinino per i poveri ammalati di malaria, della dote per le ragazze, delle levatrici o dei dottori per partorienti e malati. Inoltre si faceva protettore di tutti coloro, ricchi e poveri, donne e bambini che venivano aggrediti dai briganti violenti.
Dipinto come grande seduttore, amante della musica, conoscitore del mondo, fu però un feroce criminale di fronte alle ingiustizie sociali.



"Ammazzò pure un taglialegna,
perché gli fece azione indegna,
alla giustizia lo dava in mano
e ad un gendarme svelò ogni arcano
però Tiburzi scoperse tutto
e fece strazio del farabutto.
L'ammazzò e lo fece a pezzettini, e per far tetra orrida festa
poscia in un palo infilò la testa.


In fuga dalle persecuzioni volute da Giolitti, venne ucciso dai Carabinieri nella notte fra il 23 e il 24 ottobre 1896 in località Le Forane, vicino Capalbio. Da quel momento in poi esplose tutta l'ammirazione del popolo  maremmano per quel personaggio. Anche la vicenda del suo funerale è avvolta nella leggenda: pare che la legge ecclesiastica impedisse la sepoltura di un assassino in terra consacrata, perciò dopo una lunga trattativa Tiburzi fu sepolto "mezzo dentro e mezzo fuori dal cimitero".



Fonti e libri consigliati:
Zeffiro Ciuffoletti (a cura di), Tiburzi e i suoi antenati, Edizioni Effigi 2006
Alfio Cavoli, Maremma d'altri tempi, Edizioni Effigi 2008

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